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Mario
Allia, Bruno Bettinelli,
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Cantar Storie
* *
Ricerca sul campo e apparato filologico a cura di: Luca Bonavia, Loris Bonavia
Eppure fa
piacere a sera
andarsene per strade ed osterie,
vino e malinconie
e due canzoni
fatte alla leggera
in cui
gridando celi il desiderio
che sian
presi sul serio
il fatto che
sei triste o che t’annoi
e tutti i
dubbi tuoi...
(Francesco
Guccini)
Introduzione
Tempo,
e tempo fa, cantare era come la vita. Paure, guerre, inverni, piccole cose,
l’amore; leggende, sogni e lontananza.
Vivere,
e cantare. Era anche un modo per non perderla, la vita, per sentirla sempre
attorno, anche nei momenti in cui tutto era silenzio e mancava la forza per
credere a un domani. A uno qualsiasi. La magia - una magia semplice - era allora
mettersi lì, e cantare. A occhi
chiusi, oppure al buio: un raccontarsi storie. Un raccontarsi.
Quelle
storie viaggiavano, e sapevano andare lontano: anche oltre le montagne, in
rivalmare, tra voci di luoghi sconosciuti che nemmeno t’immaginavi
esistessero. E là continuavano a dire di partenze, miniere, grandi dolori e
ritorni inaspettati. Di povere cose, baci e inverni.
E
viaggiavano.
Non
hanno mai smesso di viaggiare. Infatti sono ancora qui, non tutte ma ci sono,
approdate un po’ a fatica in un mondo che ha scoperto nel frattempo nuovi modi
per far musica, per viverla, sentirla e farla propria.
Un
uomo, Victor Jara, scriveva nel 1968 parole bellissime. Era un grande
cantautore, cileno, rivoluzionario, destinato a morire per le sue idee e per la
sua musica.
« La canzone nasce con l’uomo e con la sua
necessità di esprimere una interiorità soggettiva, per renderla universale con
un atto di comunicazione e partecipazione. Per questo la canzone mostra
l’essenza dell’uomo e, fin dalle origini, pone in evidenza l’intima
relazione tra i problemi dell’esistenza umana e l’ambiente nel quale tali
esistenze si sviluppavano [...] ...la canzone nasce come necessità e non come
mero divertimento, anzi essa ha una sua intrinseca finalità: chiarire il
conflitto dell’uomo vivo e libero sulla terra. »[1]
Anche
al di là di quest’universo musicale fatto di “canzoni politiche” e
“rivoluzionarie”, che meriterebbe parole e libri a parte, le annotazioni di
Jara illustrano con efficacia straordinaria la portata e il senso del cantare.
In Cile, tra i monti della Savoja, o in un piccolo alpeggio ossolano. Cantare
come vivere. Come piccola, grande parte della vita stessa.
Anche
per questo, non è stato facile: perché dalle voci alla carta il passo è
breve. Troppo.
Come
in un vero viaggio, soltanto rallentando il passo è possibile cogliere quei
frammenti di realtà che danno veramente un senso al nostro lavoro: stiamo
parlando di storie smarrite, che nascondono ancora brandelli di sè, voci che
esitano, cercano, si ritrovano, scompaiono.
E
ogni passo della ricerca, dalla raccolta sul campo all’ultimo accordo di
un’elaborazione, è stato fatto con semplicità,
attenzione e un senso di cura che tanto somiglia all’amore. Perché questo è
l’unico modo, ancora, per ritrovare
senza perdere, sfiorando con le dita l’arcaico senza rischiare che divenga un
pericoloso riflesso di presunzione, un niente
fatto di parole e note e parole, e null’altro.
Abbiamo
avuto il tempo, davanti a noi. Un
tempo che corre, impossibile fermarlo, e mentre corre porta con sè vento,
pioggia, guerre, sorrisi, ritorni e nostalgie.
Perché
la gente dimentica. E soltanto alcune storie, ancora, per poco, sanno
sopravvivere. Altre sono ormai definitivamente scomparse dentro a case, boschi,
stanze d’ospedale. Smarrite nella voce e nella memoria di donne e uomini che
solamente la notte riuscivano a cantare nei propri sogni, accompagnati dalle
voci dei loro cari di una volta, ormai soli dentro all’abisso dolce dei
ricordi.
Questa
ricerca è soprattutto un omaggio a quelle voci, a quelle storie. Alle radici di
una terra e di tutti quelli che qui sono nati, arrivati, ritornati. Ed è stata
un’emozione.
Raccogliere,
ascoltare, sentire. Difficile da
esprimere attraverso le pagine di un libro, nelle parole di una conferenza, nei
formidabili “crescendo” di un coro che canta canzoni d’Ossola, succeda
sotto i portici della nostra Piazza del Mercato, in una chiesa di Valdobbiadene,
o nella casa di chi, da qualche parte, ascolta.
Anche
per questo, dopo l’insperato successo del primo volume del “Cantar
Storie”, è emerso in modo forte il desiderio di non fermarsi, continuare,
osare di più. Affiancando alle due componenti fondamentali del lavoro - le
schede etnomusicali e le elaborazioni corali - una terza dimensione, che appare
ora ineliminabile ed essenziale: quella sonora.
C’è
una strana intensità nell’aria, quando si sentono risuonare quelle voci, già
ascoltate e riascoltate cento volte, pensando che continueranno a viaggiare
assieme a questo libro, attraverso case, sale da concerto, osterie.
“Storia”,
“Ricerca” e “Viaggio” sono parole importanti, che spesso - molto spesso
- camminano a fianco, strette in un abbraccio.
“Fino
alla fine del mondo” è un film molto lungo, e molto bello, nato dalla
fantasia del regista Wim Wenders.[2]
Fuggendo da un pericolo incombente, un gruppo di uomini in cerca di un riparo
s’inoltra nel deserto australiano, a bordo di un camioncino traballante. Tutti
in silenzio. Tutti. Tranne un uomo, solo, che canta. È un aborigeno, ha gli occhi chiusi, e canta senza mai
fermarsi. Perché, chiede qualcuno: cosa canta, e perché.
Gli
aborigeni - spiega William Hurt, che del film è il protagonista - non hanno un
testo sacro. La loro terra è il loro
libro sacro. E pensano che solamente cantando
quella terra, ognuno una piccola parte, la potranno salvare.
Se
continueranno a cantarla, nessuno, mai,
gliela potrà portare via.
Anche
per noi è così. Un deserto australiano, o queste valli d’Ossola: poco
cambia. Le voci che abbiamo ritrovato e ascoltato cantano
storie: le storie che la memoria della nostra terra ha dentro di sé.
Cantarle, portarle con noi, ci fa sentire più sicuri: perché nulla si
dimentichi, o si perda chissàdove, nel vento del tempo.
Ecco
perché un libro, due volumi, un cd.
Non
sappiamo se ci sarà un terzo volume. Forse. Chi sa. Ma il viaggio continua.
Continua
la volontà di non perdere, di ritrovare, di viaggiare attraverso il tempo e
lungo le radici della nostra memoria. Sono ancora molti i progetti, e i
desideri: c’è un intero mondo di canti sacri e liturgici ancora da esplorare,
innumerevoli spunti da approfondire, un archivio da valorizzare e diffondere, le
valli e i paesi che si estendono dall’Ossola verso le terre vicine di Cusio e
Verbano che custodiscono ancora molti segreti del loro passato canoro. C’è,
poi, il magico mondo Walser, che promette di svelare altri frammenti preziosi
della sua Storia, delle sue leggende, delle sue ballate d’amore e di vita.
È così, per certi viaggi. Cominciano. E già si sa che non potranno mai
finire.
Luca Bonavia
[1] La citazione è tratta dalla nota introduttiva all’album di Daniele Sepe “Conosci Victor Jara?”, edito nel marzo del 2000.
[2] La stessa immagine del film è ricordata da Alessandro Baricco nella presentazione del suo spettacolo teatrale “Totem”, un altro viaggio nella musica (e non solo) alla riscoperta di frammenti e momenti di memoria, per non dimenticare.
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